L’INIZIO DEL CAMMINO INIZIATICO DI CAPPELLA SAN SEVERO

L’INIZIO DEL CAMMINO INIZIATICO DI CAPPELLA SAN SEVERO
Un tempo i visitatori entravano dalla Porta d’occidente, e vi leggevano l’epigrafe all’ingresso, oggi dai più è trascurata in quanto si entra da quella principale che è posta a sud. Sui capitelli dei pilastri vi sono scolpite due teste di morto. Hanno la peculiarità di essere alate e coronate, con due coppie di tibie incrociate al di sopra. Siccome sono alate ed hanno la corona non simboleggiano la morte, rappresentano la rinascita anche per il ribaltamento della posizione delle tibie, non la morte ma la vittoria sulla morte. L’epigrafe è in latino, possiamo tradurla più o meno così:
Viandante, cittadino o straniero, che entri come ospite… (omissis) osserva da studioso con occhi attenti, e le ossa degli eroi onuste di gloria anche piangendo contempla, e quando giustamente avrai reso (persolveris, meglio ancora “compreso” o “spiegato chiaramente”) il culto alla Madre di Dio [potrebbe alludere alla statua della Pudicizia N.d.R.], il valore all’opera, la giustizia ai defunti,
allontanati riflettendo seriamente con te stesso. E’ chiaro quindi l’invito di Don Raimondo, la Cappella va profondamente studiata per poter essere compresa.

DISINGANNO
Iniziamo il nostro approfondimento dal Disinganno. E’ la prima delle sculture simboliche che dobbiamo affrontare in quanto è la prima condizione che occorre realizzare nel Cammino Iniziatico, il disinganno dalle illusioni e dalle falsità del mondo terreno. C’è da dire che don Raimondo s’ispirò in parte alla celebre iconologia di Cesare Ripa, che il Principe di San Severo ben conosceva, gli finanziò l’opera e il Ripa gliela dedicò, tuttavia questa raffigurazione è originale, non ritroviamo la virtù del Disinganno nella Iconologia del Ripa, pertanto il suo significato è molto importante al fine della comprensione dell’iconologia della Cappella.
Leggiamo un sunto di come è descritta dall’Origlia nella sua Breve Nota, giacché il testo fu di certo concordato con don Raimondo: … si disegna con Essa un Uomo… involto da capo a’ piedi in un sacco intessuto a rete di cordicelle annodate… il quale con una mano cerca in tutti i modi di svilupparsene per la parte del capo; e
presso a lui in un de’ suoi lati con somma leggiadria è posto un sveltissimo giovinetto, e molto vezzoso con una corona, e una fiammella in testa, che dinota l’Umano Intelletto, il quale con una mano l’ajuta a disvilupparsi, e coll’altra in cui tiene lo Scettro, gli addita questo basso Mondo, ch’è stato per l’innanzi il suo ingannatore, collocato sul piedistallo; in un lato del quale si veggono alcuni libri chiusi, e tra questi la Sacra Bibbia aperta, ove si leggono alcune sue Sentenza alludenti al soggetto.
C’è solo da aggiungere che nel bassorilievo del piedistallo è raffigurata l’evangelica scena della Guarigione del cieco nato.
Lo sveltissimo giovinetto, come lo chiama l’Origlia, in realtà è un genietto, simbolo dell’Intelletto umano, la fiammella accesa sul suo capo è la Luce dell’intelligenza. Mentre aiuta l’uomo a liberarsi dalla rete, scosta il manto del globo terrestre, pertanto gli svela ciò che prima era coperto, nascosto. Lo scettro che impugna è simbolo dell’asse cosmico, che unisce ciò che è in basso a ciò che è in alto, il mondo materiale e quello immateriale, indica quindi il passaggio ad altri mondi e ad altri stati dell’essere.
Leggiamo la scritta in latino raffigurata su un libro aperto, appoggiato sul globo: è la Bibbia, sulla pagina di sinistra vi sono riportate tre sentenze, i cui riferimenti biblici sono indicati sulla pagina
di destra. Ecco la lettura completa del passo biblico di riferimento: VINCULA TUA DISRUMPAM, Ora infrangerò il giogo che ti opprime spezzerò le tue catene (Nahum I,13) VINCULA TENEBRARUM E LONGAE NOCTIS QUIBUS ES COMPEDITUS (Sapienza XVII,2 e non XXII,2 come erroneamente riportato) Gli iniqui, credendo di dominare il popolo santo, incatenati nelle tenebre e prigionieri di una lunga notte, chiusi nelle loro case, giacevano esclusi dalla provvidenza eterna. UT NON CUM HOC MUNDO DAMNERIS (Paolo, I Lettera ai Corinzi XI,32) Quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non essere condannati insieme con questo mondo.
La sentenza fatta incidere quindi recita: SPEZZERO’ LE TUE CATENE, LE CATENE DELLE TENEBRE E DELLA LUNGA NOTTE, DALLA QUALE SEI LEGATO, PERCHE’ TU NON SIA
DANNATO CON QUESTO MONDO. Chi pronunzia queste parole non è il Signore ma il Genio alato, personificazione dell’Intelletto umano, che se si guarda con attenzione ha le labbra schiuse.
La scultura, unica tra tutte le Virtù raffigurate nella Cappella, è dedicata non a una donna della famiglia, bensì ad Antonio di Sangro, padre di Don Raimondo, il quale, dopo la morte della moglie,
a cui è invece dedicata la Virtù della Pudicizia, si diede ad una vita scellerata, poi se ne pentì, si fece benedettino e condusse una vita ascetica.
La liberazione dai legami corporei, dalle tenebre, l’illuminazione, lo svelamento del mondo terreno (l’acquistare la vista dalla cecità è raffigurata sul basamento, tale è la condizione del profano ammesso bendato alla iniziazione massonica) riflettono una Iniziazione effettiva, non quella simbolica, virtuale, iniziazione effettiva per mezzo di una trasmutazione interiore, per cui l’uomo, animato dall’amore per il suo Creatore, si libera da quella parte della sua natura che lo rende mortale sperando in una sua futura immortalità.
In basso ci sono tre Libri chiusi, segno della difficoltà iniziale per quanto c’è da affrontare, il simbolismo del numero tre è il primo mistero da comprendere per chi inizia il Cammino, difatti è il
Numero “misterioso” che deve comprendere l’Apprendista massone.
LA PUDICIZIA
La virtù della Pudicizia veniva riconosciuta come uno degli attributi della Temperanza, che è la virtù del giusto mezzo. Assieme alla Castità veniva contrapposta alla Lussuria, il velo era simbolo di fedeltà oltre che di pudore. Secondo l’iconologia del Ripa: Una giovinetta vestita di bianco, in testa abbia un velo dell’istesso colore, che le cuopra la faccia fino alla cinta, con la destra mano tenghi un giglio parimenti bianco, et sotto il piede destro una testuggine. Notiamo che la Pudicizia della Cappella non ha il velo fino alla cinta, bensì l’avvolge per intero, come un sudario. Non ha un giglio, simbolo di purezza, ma un festone di rose, non ha la tartaruga – simbolo della fedeltà coniugale, in quanto si sentenziava che le donne pudiche devono stare nella loro casa come la tartaruga – ma una lapide spezzata, un vaso bruciaprofumi e una quercia che si apre un varco fra i marmi del piedistallo. Ciò che indubbiamente colpisce chi guarda è il velo, dovrebbe essere il simbolo del Pudore eppure fa trasparire l’avvenenza del corpo, con il suo ventre abbondante e le mammelle turgide rigonfie di latte, più che celarlo lo ostenta, raffigurazione che offre senza dubbio un’immagine sensuale, con una forte attrazione erotica. E’ l’esaltazione della natura femminile, eppure ci si rende conto che è l’immagine di una morta avvolta nel sudario. La raffigurazione, dunque, non si limita a commemorare la madre morta, allude alla forza femminile della Natura e al velo dei suoi misteri, alla Vergine madre, al principio femminile della generazione e, quindi rimanda simbolicamente alla Luna. Se ne deduce così che la dedica ai due
genitori rimanda al principio maschile e a quello femminile, quindi al Sole e alla Luna, in termini alchemici al Re e alla Regina, lo Sposo e la Sposa, ai principi che l’iniziato deve via via rettificare per poi ricongiungerli e così generare in sé il Figlio divino.
L’immagine del Cristo compare su entrambi i piedistalli. Qui, una volta risorto, quando compare alla Maddalena, e dice: Non mi toccare, Noli me tangere, perché non sono ancora salito al Padre mio. Cristo ha nella mano sinistra una vanga, per questo motivo, secondo il racconto evangelico, Maddalena credette che fosse il giardiniere. La vanga serve a rivoltare il terreno per la semina,
affinché si producano nuovi frutti, la sua punta la vediamo rivolta al terreno, rimandando così all’idea che occorre operare nella propria interiorità affinché si abbiano nuovi e rigogliosi frutti.