Da Iside del Corpo di Napoli a Maria Egiziaca (Passando per le Anime pezzentelle)
Riflessioni (libere) a margine di un recente convegno sull’isismo e le origini del Rito egizio.
Una operosa comunità alessandrina, si stabilì tra il III e II secolo a.C. in una zona acquitrinosa di Neapolis in mezzo alla quale scorreva un piccolo fiume che, raccogliendo le acque della collina sovrastante, si divideva, prima di sfociare al mare, in rivoli, tanto da conferire alla morfologia dell’area una vaga somiglianza con il delta del Nilo. Ancora oggi quell’antico insediamento, tra via dei Tribunali e San Biagio dei librai, trova il suo epicentro in Largo del Corpo di Napoli dove troneggia l’immagine Nilo.
Si pensa che la statua, tarda copia romana (II sec. d.C.) di un originale greco, ornasse l’iseo di quella prima enclave egizia.[1] L’ipotesi è suffragata da una epigrafe dedicata alla dea e ad Horo-Apollo, rinvenuta in loco durante i lavori di abbattimento del Sedile del Nilo,[2] che portarono allo scoperto di alcuni muri composti da grossi quadroni di tufo, tipica struttura degli edifici pubblici della città greca. In quello che poteva essere il pronao del santuario, furono ritrovati anche numerosi frammenti ceramici di tabelle votive dedicate dai marinai a Iside Pelagia.
Ma questo era solo uno dei tanti Isei e Serapei che fiorirono a Napoli, come in tutta l’area flegrea (Cuma, Baia, Bacoli) e benché, almeno stando a quel che ci è pervenuto, gli edifici partenopei non raggiunsero l’imponenza architettonica di quelli di Pozzuoli, Ercolano e Pompei, tuttavia il culto della dea, signora dei vivi e dei morti, esercitò un grande fascino sull’immaginario collettivo, consolidando le basi culturali di una visione sacrale dell’heimarmene che sostiene la vita dei Napoletani.
Del resto, storia alla mano, da almeno duemilacinquecento anni, Napoli è la città filosofica per eccellenza, dove si sono accumulati, e sono stati reificati nella prassi quotidiana, scuole di pensiero, altrove spentisi come stelle cadenti. Città dove anche l’arte e la letteratura diventano filosofia di vita, alla fine del II sec. a.C. accolse il poeta Lucilio che vi si trasferì per trascorrere l’ultima parte della sua vita,[3] seguito, come dice Cicerone, da quanti abbandonavano la toga romana per indossare il mantello alessandrino del pensatore.
Tra il 70 e il 40 a. C. vi giunsero anche due epicurei provenienti dalla Siria: Filodemo di Gadara e Sirone che si stabilirono tra Ercolano e Posillipo. E del resto c’è forse al mondo un “quadrifarmaco dell’anima” migliore di una casa a Posillipo, in vista del golfo?[4] Filodemo visse per lo più ad Ercolano, protetto da Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare, tanto che molti dei papiri di quella celebre biblioteca, sepolta sotto la lava del Vesuvio, contengono frammenti delle sue opere.[5]
Entrambi presero parte attiva alla vita culturale della città, dando vita ad un cenacolo in cui si coltivavano, oltre alla filosofia e alla teologia, la musica, la drammaturgia e le arti in genere. Lo frequentarono Cicerone, Orazio, Vario Rufo, Quintilio Varo e Virgilio che alla morte di Sirone ne ereditò la casa di Posillipo, dove visse gli ultimi anni in fama di “gran mago”.[6]
Quanto questa filosofia, intrisa di esoterismo, che, ancora oggi, costituisce il tessuto connettivo della città, in specie nel suo costante rapporto con il mondo dei morti, dipenda da una sua naturale disposizione o sia rapportabile al culto di Iside, è difficile dirlo; certo è che a questa divinità e al suo nodo portentoso rimanda la propensione partenopea per gli amuleti, così come alle sue formule magiche rimandano le pratiche oniriche con le quali il napoletano stabilisce un contatto con le “anime pezzentelle” disponbili, quando onorate con affettuosa attenzione, a pronosticare i numeri vincenti al lotto. Si tratta di un uso il cui significato intrinseco travalica il mero dato folclorico, ma anzi assurge a condizione esistenziale che considera la vita e la morte i due aspetti speculari della medesima vicenda.
“L’anno a Napoli – scrive Claudio Corvino – si divide in due periodi definiti ‘o vierne e ‘a staggione” e l’inizio dell’inverno è vissuto “come se porte dell’aldilà si aprissero e i morti cominciassero a visitare la terra. Una visita vissuta con serenità e che avrà varie forme di comunicazione attraverso i sogni soprattutto, ma anche per mezzo di immagini, racconti, luci e voci. Una visita che si concluderà con la Candelora o con San Biagio”.[7]
Osservata da questa visuale, la devozione per le anime pezzentelle che potrebbe essere nata non prima del secolo XVII, quando l’incalzare di grandi epidemie costrinse ad utilizzare come sepoltura gran parte delle cave di tufo che si aprono nel sottosuolo della città, rivela un sostrato mitico molto antico, anzi arcaicizzante che però Iside potrebbe aver incanalato entro i parametri della sua religione. Ma chi sono le anime pezzentelle? “Sono anime abbandonate, senza parenti, sono anime di morti per violenza, spesso insepolti, condizione questa che li vede erranti e vendicativi; martiri, appestati, ciechi, lebbrosi, soldati e marinai, giustiziati e assassini”.[8]
Nasce così una specie di solidarietà per le anime di gente, che fu emarginata da viva e che lo sarebbe anche da morta, se la pietà di un devoto che se ne prende cura, non istaurasse, su un piano di condivisa liminarità, un patto di reciproco scambio, che si esteriorizza anche in una gestualità rassicurante.
Accade così che donne, di ogni età e condizione sociale, sfidando l’ostilità del clero, si rechino a visitare l’anima pezzentella adottata per ristorarla non solo con la loro affettuosa compagnia, ma anche con qualche piccolo dono (un garofano rosso, un lumino, un dolcetto) e soprattutto curando e sistemando alla meglio le sue povere ossa. Il giorno deputato è il lunedì, spesso il primo lunedì del mese, perché è “il giorno della luna e di inizio” – e qui fa capolino Iside nelle sue epiclesi di regina del cielo notturno e nelle sue assimilazioni magiche con Ecate – e i luoghi sono le cripte, gli ipogei, le cisterne e le catacombe di Napoli.
Claudio Covino, a cui si rimanda per gli approfondimenti, ne offre un elenco lunghissimo, in cui il cimitero delle Fontanelle è solo una tappa, e nemmeno la più frequentata che, dall’indagine da lui condotta e dai materiali raccolti, risulta essere invece la cripta di San Pietro ad Aram. Seguono Santa Maria delle anime del purgatorio, detta anche delle “cap’e morte”, nei pressi di via dei Tribunali, le catacombe di San Gaudioso, poste sotto la chiesa di Santa Maria alla Sanità, nota perché qui i cadaveri venivano messi “scolare” su sedili, per predisporli ad una specie di rudimentale imbalsamazione che, in qualche caso, ha dato risultati sorprendenti. Ma se i numeri in sogno li danno i morti, a risolvere le difficoltà che le donne devono affrontare ogni giorno, in specie quelle che vivono in una situazione marginale, ci pensa Santa Maria Egiziaca e non solo a Napoli, ma in tutto il mondo. Benché sia stata oggetto di un culto antichissimo, risalente al V secolo della nostra era, tuttavia si tratta di una figura leggendaria, costruita su una serie di stereotipi orientali propri della fabula milesia e riorganizzati entro l’ottica cristiana, in una vita attribuita a Sofronio (560 circa – 638) monaco siro e vescovo di Gerusalemme.
Maria, la cui figura si sovrappone a quella della Maddalena penitente, sarebbe nata ad Alessandria d’Egitto nel 344 e dall’adolescenza avrebbe esercitato il mestiere di prostituta in un bordello di quella città, fino a quando ventinovenne, presa dal desiderio di viaggiare, si sarebbe unita ad un gruppo di pellegrini (seducendoli tutti) in partenza per Gerusalemme dove, davanti ad una icona della Madonna, si sarebbe pentita della propria vita dissoluta e avrebbe deciso di fare penitenza nel deserto della Palestina. Qui sarebbe restata in solitudine per quarantasette anni, nutrendosi di erbe e di locuste, fino a quando non fu trovata da Zosimo, un santo monaco eremita errante che le donò un mantello e che l’anno successivo, tornando a farle visita, nel 421 d. C., la trovò morta.
Come si è detto, la figura di Maria Egiziaca, eremita del deserto, cominciò a diffondersi alla fine del V secolo, sovrapponendosi a quella di Iside ancora fiorente. A Napoli poi il collegamento è ancora più diretto perché il culto, di cui ci danno notizia Paolo Diacono neapolitanus e il calendario marmoreo,[9] si svolge nella chiesa paleocristiana ricavata dall’edificio che era stato fino a poco prima l’Iseo di Forcella, e che nel 1342 la regina Sancha d’Aragona farà ampliare in sontuose forme gotiche, annettendovi un ristretto per le prostitute pentite.[10]
[1] La statua, che è stata più volte restaurata ed integrata delle parti mancanti, raffigura un uomo barbuto disteso sull’acqua e con i piedi appoggiati su un coccodrillo. Con la mano destra regge una grande cornucopia, mentre dalla piega del braccio sinistro, appoggiato su una sfinge, fa capolino un bambino, simbolo degli affluenti. Originali sono il corpo della divinità, la sfinge, il bambino e quel che resta del coccodrillo. Cfr. Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, op. cit.
[2] Per sedile, seggio o piazza, si intendono ognuna delle cinque sezioni territoriali (Capuana, Montagna, Nilo, Porto e Portanuova) che dal XII al XIX secolo amministrarono Napoli. Esse ripetevano, per struttura e funzione, le fratrie istituite nel V secolo a. C. dai coloni greci fondatori di Neapolis. Cfr. Benedetto Croce, I Seggi di Napoli, in Aneddoti di varia letteratura, vol. I, Bari, Laterza 1950.
[3] Cfr. Augusto Rostagni, La cultura letteraria di Napoli antica nelle sue fasi culminanti, in Parola del Passato (Rivista di studi antichi), Olschki, Firenze 195, pp. 344-357.
[4] Per l’etica epicurea, il quadrifarmaco dell’anima è il complesso delle quattro regole fondamentali per il conseguimento della felicità, consistenti nella consapevolezza che la morte è nulla per l’uomo, che gli dèi non si interessano all’uomo e non hanno incidenza sulla sua vita, che il dolore fisico ha una durata breve, che il piacere è il soddisfacimento degli stimoli primari.
[5] Cfr. Maria Paola Guidobaldi, Villa dei Papiri, La Moderna Stampa, Napoli 2003.
[6] Il Poeta descrive la casa e temperie di quegli anni nel Catalepton (Appendix vergeliana n. 1) carme dedicato ai giovani amici Vario Rufo e Quintilio Varo.
[7] Claudio Corvino, Tradizioni popolari di Napoli, Newton Compton editori, Roma 2017, p, 21.
[8] Patrizia Ciambelli e Paolo Guiotto, Quelle figlie e quelle spose. Il culto delle Anime Purganti a Napoli, ed. De Luca, Roma 1980. p. 36.
[9] Cfr. Gennaro Luongo, Il Calendario marmoreo di Napoli, in Bollettino Linguistico campano, n. 13/14Università Federico II, Napoli 2008. pp. 1-24.
[10] Vincenzo Regina, Le chiese di Napoli. Viaggio indimenticabile attraverso la storia artistica, architettonica, letteraria, civile e spirituale della Napoli sacra, Newton e Compton editore, Napoli 2004.