Plutarco di Cheronea
de iside et osiride
Come il profumo del sacro kepi che brucia sugli altari
all’ombra silente de la sera
1 – Da opera storica a esegesi mistica
Nella vastissima letteratura in argomento, il De Iside et Osiride di Plutarco fu considerato a lungo un’opera di riferimento non solo per l’interpretazione esegetica del mito isiaco, ma anche per la descrizione dei rituali religiosi egiziani, di cui fino alla decifrazione della stele di Rosetta, si potevano avanzare solo congetture.
Composta nella tarda maturità, tra il 110 e120 d.C., anno in cui comunemente è fissata la morte dell’autore, è dedicata, sotto forma di lettera, a Clea, prima tiode di Dioniso nel santuario di Delfi, dove anche Plutarco era da molti anni gran ierofante. La dedica in parte chiarisce la struttura e il fine dell’opera che, nonostante la prosa scorrevole e sostanzialmente lirica, si distacca dai generi, quali la retorica mitologica e mistica, praticati in composizioni del genere, per assumere l’andamento saggistico, e si rivela fin dalle prime battute, una lettura elitaria, riservata a chi è pervaso da “la tensione verso la verità, e soprattutto verso il vero, riguardo agli dèi”. L’apprendimento e la ricerca che tale tensione comporta – continua Plutarco, “infatti, costituiscono quasi un acquisto di virtù divine, e sono un’iniziativa spirituale, ben più santa di qualsiasi forma di castità e della continua pratica religiosa”.
All’epoca in cui egli scriveva, i Misteri isiaci avevano già conosciuto una vastissima diffusione in tutta l’ecumene, tanto da aver acquistato una estrema popolarità, a discapito del carattere esoterico che per secoli era stata la loro cifra identificante, sino a divenire poco più che una elegante moda esotica o se si vuole un atteggiamento intellettuale.
Il fenomeno, che Plutarco non esita a definire superstizioso, interessava non solo Alessandria, Tebe ed Atene, dove prevaleva l’interpretazione razionalistica di Evemero di Messene, da cui peraltro il Nostro si discosta, ritenendola inappropriata agli argomenti religiosi, la cui divinità non è riducibile entro gli schemi storici, ma soprattutto la vasta area egemonica dell’impero romano, dove una folla di devoti accettava acriticamente il racconto antico e seguiva con entusiasmo le cerimonie pubbliche officiate dai sacerdoti della dea.
2 – Iside in Occidente
Il culto di Iside, non senza la resistenza del Senato, fedele custode del mos maiorum e contrario agli esotismi eccessivi che quella devozione comportava, si era stabilito a Roma, già dalla metà del II secolo a. C., nel tempio capitolino, di cui ci danno conto due iscrizioni che menzionano “sacerdotes Isidis Capitolinae”, e di cui si dirà meglio in seguito, ma trovò la sede più rappresentativa nel monumentale Iseo di Campo Marzio, iniziato nel 43 a.C. dal Secondo Triunvirato (Ottaviano, Marcantonio e Lepido per continuare il programma edilizio inaugurato da Giulio Cesare) a più riprese rinnovato ed ingrandito in età imperiale e, infine frequentato fino al V secolo della nostra Era, quando l’Urbe era già il centro vitale del Cristianesimo.
Tra gli aspetti più eclatanti del culto emergeva il carattere onirico con il quale la divinità si rivelava non solo ai suoi iniziati, ma anche al pubblico più vasto dei fedeli che si sottoponevano alla pratica del sonno salvifico e profetico entro i santuari isiaci e serapici, dove del resto i sacerdoti predisponevano tutte le condizioni necessarie a trasformare l’incubatio in un’esperienza fuori dell’ordinario sensoriale, anzi decisamente collocabile in uno stato di coscienza alterata, decodificabile dagli stessi protagonisti in una dimensione metafisica e soprannaturale. Al riguardo, accanto ai documenti epigrafici, soccorrono quelli letterari che, con maggior dovizia di particolari, offrono elementi più espliciti e suggestivi. Tali sono, per restare agli esempi più celebri, le storie di Teletusa e di Lucio. Della prima ci dà conto Ovidio, narrandone il sogno con cui Iside si rivela alla donna promettendole aiuto incondizionato e della seconda, in cui, come noto, il protagonista passa dallo status di asino a quello di uomo ed infine di iniziato, Apuleio.
3 – Le fonti e la ricerca dell’Egitto antico
Tra le fonti a cui Plutarco presumibilmente attinse non è difficile individuare il secondo libro delle Storie di Erodoto, la Biblioteca di Diodoro di Agirio, la Geografia di Strabone, o la Varia Storia di Eliano, ed egli stesso avverte di aver tenuto presente le storie raccolte da Eudosso di Cnido nel secondo libro del Giro della Terra, in considerazione della loro autenticità, poiché sono “proprio come le udì narrare dai sacerdoti di Eliopoli”.
L’Egitto che egli propone a Clea, però, non è quello storico greco-romano che poteva verificare quotidianamente a Cheronea, a Roma, ad Atene, o leggere sui volumi della biblioteca di Alessandria; è, al contrario, l’antico Egitto dei Faraoni e della tradizione religiosa, affidata ai libri sacri e alla parola dei sacerdoti, a cui si rivolge, non già con l’interesse di un erudito o di un antiquario, teso a comporre l’esegesi del mito, ma con quello del teologo impegnato a pervenire al vero scopo dell’opera, ovvero “la conoscenza del divino stesso, per quanto sia possibile alla natura umana”.
Scrive al riguardo Claudio Moreschini: “La felicità della vita eterna del De Iside et Osiride, consiste nel possedere la conoscenza, sì da non rimanere privato di tutto ciò che avviene, perché, se si toglie il conoscere la realtà delle cose e il pensare, l’immortalità non è più vita, ma puro e semplice scorrere del tempo. Il desiderio di conoscere il vero sulla realtà degli dèi equivale alla aspirazione dell’opera, la quale in un certo senso possiede l’ottenimento e l’apprendimento delle realtà sacre. In questa aspirazione alla conoscenza consiste, sostanzialmente, la santità”.
A parte l’esposizione della vicenda “sfrondata da tutto ciò che è superfluo” e narrata per sommi capi, nel solco della tradizione corrente, secondo la quale fu Iside stessa a fondare il rito affinché “tutte le fatiche e le lotte che aveva saputo affrontare, e le lunghe peregrinazioni e le prove di sapienza e di coraggio, non andassero perdute nella dimenticanza e nel silenzio, ma anzi allusivamente rappresentassero una lezione di pietà religiosa e un segno di conforto per tutti gli uomini e le donne oppressi da disgrazie simili alle sue”, Plutarco incentra l’opera sulla esegesi del mito, vagliato attraverso la sua formazione filosofica e la sua esperienza di religioso che più volte si era recato in Egitto per osservare i riti colà praticati ed interrogare i sacerdoti.
4- La comune origine mitica di Sais e Atene
Lo schema teoretico di riferimento è la filosofia platonica ed in particolare il “mito verisimile” del demiurgo, la cui provvidenza genera il mondo come “un essere vivente dotato di anima e di intelligenza”, ma il collegamento diretto a Iside è il racconto (pronunciato da Crizia) con il quale un anziano sacerdote di Sais dimostra a Solone che la storia religiosa della Grecia e dell’Egitto hanno una matrice comune, riconducibile ad eventi accaduti novemila anni prima, di cui, a causa di terremoti, alluvioni ed altri disastri naturali, si è persa in parte memoria, ma non fino al punto di non poter affermare, con assoluta certezza, che l’origine di Atene, rispetto a quella di Sais, sia più antica di almeno mille anni, come è scritto nei libri sacri conservati nel santuario.
Ambedue le città, infatti aggiunge il sacerdote, sono state fondate dalla stessa divinità che in greco prende il nome di Athena ed in copto è detta Neith.
Del resto, come dichiara apertamente Plutarco, esprimendo una concezione monoteista non distante dal nascente cristianesimo, “Non ci sono dèi diversi per popoli diversi, né dèi barbari, né dèi greci, né tanto meno dèi settentrionali e dèi meridionali. Come il sole, la luna, il cielo, la terra e il mare sono di tutti, anche se prendono nomi diversi, così anche le religioni e i modi di chiamare le divinità sono diversi da popolo e popolo, a seconda delle singole tradizioni, e però tutti si riferiscono ad una sola ragione prima, quella che ha dato ordine a questo mondo, ad una sola provvidenza che lo dirige, e a forze subalterne che hanno il compito di presiedere a tutte le altre”.
5 – Il mito interpretato attraverso l’opera di Platone
Questa Atene antidiluviana viveva in pace e prosperava “superando tutti gli uomini in ogni virtù, com’era conveniente per la prole e gli allievi degli dèi” poiché le sue leggi e i suoi ordinamenti le erano stati impartiti dalla stessa dea eponima, “amante della guerra e anche della scienza”.
Molte furono le imprese gloriose di cui si rese protagonista, ma fra tutte – continua il sacerdote di Sais – “ve n’è una che le supera per grandezza e valore: dicono infatti le scritture quanto grande fu quella potenza che la vostra città sconfisse, la quale invadeva tutta l’Europa e l’Asia nel contempo, procedendo dal di fuori dell’Oceano Atlantico”.
Plutarco, nel narrare il mito, insiste sulla figura di Atena che gli permette di ricondurre ad una comune origine la cultura greca e quella egiziana in senso lato, di identificare Athena – Neith con Iside “eletta per sapienza e desiderio di sapienza, come il suo stesso nome sembra indicare”, ed infine proseguire l’esegesi con lo schema cosmogonico esposto da Timeo da Locri, ovvero l’intelligenza (nous) del Demiurgo (in questo caso Osiride) che rallegratatosi del prodotto realizzato e della sua somiglianza con il modello intellegibile, popola l’Egitto di uomini saggi e coraggiosi e attraverso una regola di vita costante e morigerata, li invita a perseguire la conoscenza dell’Essere primo che la dea stessa “ci chiama a cercare, perché presso di lei e insieme a lei esso vive in perenne unione”. Ma per giungere a questo, “poiché barba e mantello non bastano a fare il filosofo, e non bastano tonsura e vesti di lino per improvvisarsi seguace di Iside” è necessario che Clea impari a conoscere la dea analizzando razionalmente le apparenze simboliche del mito e meditando sulla verità in esse contenute.
6 – La ricerca teologica
Continuando la sua ricerca teologica, Plutarco ricorda che, non senza ragione, alcuni dicono Iside figlia di Prometeo, altri di Ermes poiché ritengono che il primo “sia l’inventore della sapienza e della preveggenza, ed Ermes a sua volta della grammatica e della musica”. Secondo il mito – continua Plutarco – Iside è figlia di Rea che la partorì nella stagione delle piogge, il quarto giorno dei cinque che Ermes aveva messo insieme giocando a dama con la Luna e vincendo la posta, ma l’intera storia non è l’invenzione fantastica di un poeta, in quanto racchiude, sotto il velo delle allegorie, il tentativo che l’umanità mette in atto per “spiegare i propri dubbi e le proprie esperienze”, condizione realizzabile quando si affronti l’esegesi con una approccio filosofico.
Esposta la teoria secondo la quale i protagonisti di questa narrazione sarebbero stati in un tempo mitico dei grandi demoni, assurti in seguito a divinità, a motivo delle loro imprese, teoria ripresa e fatta propria, ma per fini diametralmente opposti, dai polemisti cristiani, l’autore mettendo a confronto Iside, simbolo di suprema sapienza, con Tifone, suo diretto antagonista, “gonfio per ignoranza e inganno”, entra nel vivo del processo esegetico incardinadolo sul Timeo, là dove “Platone, talora con espressioni vorrei dire velate e segretamente allusive, dà ai due princìpi contrapposti il nome di Identità e Diversità”.
In questa dimensione Iside è il filo conduttore per penetrare nella Tradizione nascosta tra le pieghe di un Egitto arcaico che aveva affascinato i greci più sapienti, tanto da spingerli a ricercarvi l’origine di una conoscenza profonda e misteriosa (doxa alogos), velata com’è da un simbolismo la cui decifrazione è riservata agli iniziati.
Ne consegue che il racconto delle vicende che riguardano la dea, come quello di Atlantide, non è una realtà, o un mito, ma una verità eterna, esistente fuori del tempo e dello spazio, che il demiurgo ha immesso nella storia. Accade così che se la Natura divina, elaborata nel Timeo, consta di tre parti (l’intelligibile, la materia e il loro prodotto) allora Osiride è il principio intellegibile, Iside è il principio femminile della natura, che accoglie ogni forma di generazione” e Horos il risultato perfetto della loro unione. Iside, però, è qualcosa di più di un simbolo che rappresenta la sapienza, tanto che a Sais la sua immagine reca incisa la frase: “Io sono tutto ciò che è stato, che è, e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio peplo”. Si tratta quindi di una sapienza universale che non deriva dalla mathetis, ma ha a che fare con il logòs apophantikos esposto da Socrate nel Teeteto.
In altre parole Iside è la ragione della Conoscenza .
Alla dea, archetipo, per gli Egizi, della terra fecondata dal Nilo, fanno capo il sapere e la scienza, anzi ella è fondatrice della civiltà, promotrice del progresso e ispiratrice di un modus vivendi che ha come obiettivo il sapere e il saper fare, qualità che la pongono sullo stesso piano ideologico di Athena, rappresentazione del nous e della téchne.
Vista in questa prospettiva la natura di Iside rivela anche un alto aspetto simile ad Atena “la dea che venne da sé”, ovvero quello del movimento, in quanto il suo sapere opera nel mondo del divenire come simboleggia il sistro che ella tiene in mano. Ella contrasta la violenza sfrenata e distruttrice di Tifone con l’agire fondato sull’equilibrio e la moderazione: ”Dicono che Tifone venga stornato e allontanato dal rumore del sistro, e questo è un simbolo del fatto che quando la forza distruttiva grava sulla natura e la limita, allora il divenire interviene a liberarla e a risollevarla col suo movimento”.
In rapporto al processo di civilizzazione messo in atto da Osiride che “durante il suo regno, fece mutare agli Egiziani il loro genere di vita povera e selvatica, li istruì nella coltivazione dei campi, fissò le leggi, e insegnò loro a onorare gli dèi (…) attirando tutti con l’incanto della persuasione, con la parola unita al canto e a ogni tipo di musica”, Iside, figlia di Ermes, e per questo vocata alla grammatica e alla musica, si pone come strumento, prassi metodologica e simbolo della materia sensibile in cui opera la progressiva trasformazione culturale.
In questo senso, infatti, con l’inebriante fragranza che accompagna ogni suo movimento, con le vesti variegate in mille colori che si evolvono in tutte le forme “luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine” ella è la Natura multiforme, in continua evoluzione, “pregna dell’effluvio di bellezza” che emana dal Principio che governa l’universo.
Citando il suo ideale Maestro e più precisamente Le Leggi, Plutarco sottolinea che, poiché la nascita e la sostanza dell’universo derivano dalla contrapposizione di forze contrarie, ovvero dalla “antitesi fra la razionalità, l’ordine e la misura da un lato, e dall’altro la passionalità, l’eccesso e la violenza”, il mito isiaco è anche la rappresentazione allegorica dell’eterna lotta tra il Bene (impersonato dalla coppia Osiride -Iside) ed il Male, incarnato da Tifone, un mito presente in molte altre concezioni religiose, a cominciare da quella formulata da Zoroastro “il mago, vissuto, si dice, cinquemila anni prima della guerra di Troia” che prescrisse come ad ambedue queste forze si dovessero tributare sacrifici e riti apotropaici.
Benché la lotta sia sostanzialmente impari, in quanto il Bene è destinato a prevalere, tuttavia, anche in questa situazione l’azione di Iside diviene esemplare: a Horus il vecchio che, per vendicare Osiride le aveva trascinato dinanzi al trono Tifone in catene, ingiunge di liberare il prigioniero, poiché il male, per sua natura ineliminabile, fa parte della stessa struttura fisica e dell’anima vitale del mondo.
Ancora una volta la sapienza della dea coincide con il perfetto equilibrio che si pone fra i due termini opposti. Non a caso gli Egiziani di Hermopolis – aggiunge Plutarco – le danno il nome di Giustizia “perché rivela le cose divine solo a coloro che a giusta ragione possono venire chiamati portatori di oggetti sacri e custodi delle sacre vesti. E sono quelli che portano dentro la loro anima, come in un’urna, la sacra parola sugli dèi, pura da ogni superstizione e da ogni aberrazione, e la custodiscono, significando così che la loro concezione del divino comporta sia elementi oscuri e nascosti nell’ombra, sia elementi chiari e luminosi”.
7 – Aggiunta in forma di conclusione
Dopo aver esposto i vari aspetti del culto isiaco, dalla simbologia che inerisce i fenomeni naturali, agli animali che costituiscono l’epiclesi della divinità, Plutarco, smesse le vesti del filosofo neoplatonico e indossati i candidi lini del gran jerofante, conclude il suo saggio con il profumo del “sacro Kyphi che brucia sugli altari sul far della notte”.
Innanzi tutto ne elenca gli ingredienti, avvertendo però che la loro “mescolanza non è fatta così come càpita, ma eseguita dai profumieri secondo le precise indicazioni delle sacre scritture”, così come, non a caso, il loro numero compone “un quadrato che ha la somma dei lati uguale all’area da essi compresa”.
Quindi ne passa in rassegna le virtù salutari che purificano l’aria, giovano al corpo, sciolgono i nodi della malinconia, conciliano un sonno ristoratore, e ancor di più, favorendo la facoltà immaginativa e la parte emotiva ed irrazionale dell’anima, procurano sogni profetici e confortanti.
Il suo aroma composito che amalgama sostanze solari, come la mirra e la resina, ad altre alimentate dall’ombra, dalla rugiada e dall’umidità, lo rende adatto alla notte che è, per sua natura, “una fusione e una compenetrazione di varie luci e di varie potenze, che scorrono giù come semi da ogni stella in un unico punto”.
Quella che sembrerebbe una concessione offerta alla curiosità dei profani è, al contrario, la mistica lirica che il devoto ierofante e il delicato poeta dedicano alla dea. Nulla meglio del composito kyphi, infatti, rappresenta Iside dai molti nomi e dai molti colori, tanto che proprio questo profumo intenso ed avvolgente, come il respiro di una rassicurante madre amorosa, sembra pervadere il ritratto che, di là a qualche anno, ne farà un altro visionario: Iam primum crines uberrimi prolixique et sensim intorti per divina colla passive dispersi molliter defluebant. Corona multiformis variis floribus sublimen destrinxerat verticem, cuius media quidem super frontem plana rotunditas in modum speculi vel immo argumentum lunae candidum lumen emicabat. (…) Talis ac tanta, spirans Arabiae felicia germina, divina me voce dignata est”.